giovedì 29 aprile 2010

ComUnica (impresa in un giorno): semplificazione per i contribuenti o per la pubblica amministrazione ?

La novità con chiaro intento di semplificazione è stata introdotta dall’art. 9 del D.L. n. 7/2007. Ma semplificazione per chi ? Per l’utenza o per la pubblica amministrazione ? Questo è il punto interrogativo che rimane dopo i primi approcci alla nuova procedura. La nuova modalità di presentazione delle pratiche (di inizio, variazione e cessazione attività) al Registro imprese, Agenzia delle Entrate, Inps ed Inail è ufficialmente in vigore dal 01/10/2009 e l’utilizzo è obbligatorio per le imprese dal 01/04/2010. In realtà, almeno per il momento, non si tratta di un’unica procedura di compilazione e gestione delle pratiche (che rimangono distinte per i vari enti) ma di un nuovo sistema di comunicazione telematica (una sorta di postino elettronico) che convoglia le pratiche (che continuano a rimanere distinte) in un unico punto di smistamento individuato nel Registro imprese (CCIAA). Nulla di male se non fosse che questo nuovo sistema, tutt’altro che user friendly, preclude ancor più la possibilità di agire in proprio da parte dell’imprenditore, che si vede sempre più costretto a rivolgersi a professionisti e ad associazioni in grado di assisterlo negli adempimenti. Nulla di nuovo, peraltro, da questo versante poiché la complessità del sistema normativo nazionale comunque impone di rivolgersi ad un professionista, anzi a più professionisti, specializzati in materia. La nuova procedura è esclusivamente telematica (o, eventualmente, informatica) e richiede, fra le altre, il massiccio ed ineludibile utilizzo di soluzioni tecnologiche quali firma digitale e (questa è una delle novità di rilievo e di criticità) della posta elettronica certificata (PEC); strumenti che non hanno ancora raggiunto soddisfacenti livelli di diffusione e (soprattutto) di spontaneo utilizzo. La PEC viene chiesta non solo all’intermediario (consulente, associazione, ecc) che viene incaricato dal contribuente a gestire la pratica ma anche all’impresa (PEC d’impresa). Questa imposizione (prevista dal D.P.C.M. 6/5/2009) rappresenta una forzatura che appesantisce la gestione della pratica agli stessi intermediari che devono rincorrere l’apertura della PEC da parte del proprio cliente. I paradossi da più parti rilevati in questa prima fase sono molti. Uno di questi è rappresentato dal fatto che per concludere un abbonamento PEC viene normalmente richiesto dal gestore il codice fiscale/P.Iva del richiedente (l’impresa). Nel caso di società costituenda, il codice fiscale e la partita Iva vengono rilasciate solo a seguito della presentazione della pratica ComUnica. Per presentare la comunicazione unica non basta, però, l’indirizzo PEC del professionista che lo assiste, ma serve anche quello dell’impresa (ancorché l’impresa non sia interessata a questo, pur interessante, strumento). La soluzione, “tutta Italiana”, è offerta da alcuni gestori che consentono ai Notai di richiedere l’attivazione della PEC per i propri clienti anche in mancanza del codice fiscale/partita Iva. Diversamente … non si procede ! L’obiettivo è chiaro: carta zero e soprattutto evitare le difficoltà per la Pubblica amministrazione nella gestione della notifica dei propri atti agli interessati. Il domicilio elettronico risolve queste difficoltà. Ma non potrebbe bastare (quantomeno per le pratiche di inizio attività) il domicilio dell’intermediario a cui si rivolge l’impresa ?. Per gli enti coinvolti (almeno per il momento) la risposta è negativa ed è evidente che la “ridigità” è legata al rischio di compromettere la diffusione della PEC sui cui indubbiamente punta la Pubblica amministrazione. La sensazione è che l’obiettivo di agevolare la costituzione di un’impresa in un giorno sia tutt’altro che realizzato. Il cammino appare ancora lungo e tortuoso ed il successo di questa semplificazione, che per il momento risulta tradita e si concretizza in poco più di uno "slogan", non potrà che dipendere da una concreta, ancorché difficile, semplificazione e omogeneizzazione delle normative che stanno alla fonte degli adempimenti. Quelle che interessano oggi non solo Agenzia delle Entrate, Registro Imprese, INPS ed INAIL ma anche molti altri enti che coinvolgono la vita delle imprese sono ancora troppo dicotomiche e mal si conciliano fra loro. Né è riprova, considerati i diversi termini previsti dalle relative discipline, l’impossibilità di riuscire ad avviare contestualmente l’impresa con l’assunzione di dipendenti.

Iva vitto e alloggio: il fisco dimentica le semplificazioni volute dal legistatore nel 1996

PARADOSSI INTERPRETATIVI
Indeducibilità dell’Iva non detratta su vitto e alloggio. Nonostante l’introduzione, da settembre 2008 (modifiche introdotte dal D.L. n. 112 del 6/8/2008), della detrazione dell’Iva sulle spese di vitto e alloggio (diverse da quelle di rappresentanza), molte aziende hanno continuato a documentare tali oneri tramite scontrino o ricevuta fiscale “parlanti”, rinunciando, di fatto, alla possibilità di detrarre l’Iva su tali costi. Nella Circolare n. 6/E del 13/03/2009 l’Agenzia delle Entrata ha fornito alcune precisazioni che destano assoluto stupore. Secondo l’Agenzia, infatti, l’Iva che l’azienda rinuncia a detrarre, perché non documentata da fattura, non è deducibile ai fini delle imposte sui redditi e, come precisato nella Risoluzione 84/E del 31/03/2009, analoga sorte spetta ai fini Irap (addirittura per le stesse società di capitali che, in base alla riforma Irap introdotta dalla Finanziaria 2008, determinano le componenti rilevanti ai fini dell’imposta sulla base del dato contabile e non più sulla base del valore rilevante ai fini IIDD). L’interpretazione di “chiusura” dell’Amministrazione finanziaria si basa sulla considerazione che il contribuente ha facoltà di chiedere la fattura agli esercenti (ristoranti, alberghi, ecc) che a fronte di tale richiesta sono tenuti ad emetterla (art. 22, co.2, del DPR 633/72) in luogo dello scontrino o ricevuta. Il fisco dimostra di non conoscere la realtà delle cose. Indipendentemente dal fatto che l’esercente (anche se non potrebbe) si rifiuta di emettere una fattura (in luogo dello scontrino) a fronte di una somministrazione di pochi spiccioli (si pensi ad un caffè o a un tramezzino), diventa in ogni modo antieconomico per il committente richiedere l’emissione di un documento che, dal punto di vista amministrativo, gli comporterebbe oneri decisamente più elevati rispetto ad una (pur già complessa) rilevazione della spesa nella nota a piè di lista presentata dal dipendente. Si pensi allo smistamento dei documenti, alla registrazione del singolo documento, all'apertura e chiusura contabile del fornitore, ecc. Non solo, il fisco dimentica che il legislatore ha già disciplinato in una chiara ed inequivocabile ottica di semplificazione la materia. Due sono le norme di interesse per il caso in questione:
1. l’art. 22, co. 3, del DPR n. 633/72 che obbliga l’imprenditore a richiedere la fattura nei confronti degli esercenti solamente nel caso di acquisto di beni che formano oggetto dell’attività (nel caso in questione si tratta, invece, di servizi);
2. l’articolo 3 del DPR 696/1996 (regolamento sulle semplificazioni) il quale chiaramente dispone che “ai fini della deducibilità delle spese sostenute per gli acquisti di beni e di servizi agli effetti dell'applicazione delle imposte sui redditi, può essere utilizzato lo scontrino fiscale, a condizione che questo contenga la specificazione degli elementi attinenti la natura, la qualità e la quantità dell'operazione e l'indicazione del numero di codice fiscale dell'acquirente o committente (ndr c.d. scontrino “parlante”), ovvero la ricevuta fiscale integrata a cura del soggetto emittente con i dati identificativi del cliente”.
E’ opportuno che l’Agenzia riveda la propria posizione al fine di non generare
• nell’immediato inutili e sterili perdite di tempo alle aziende che, per seguire le nuove indicazioni del Fisco dovrebbero “scorporare”, ai fini della registrazione, l’imposta implicitamente contenuta nel corrispettivo e,
• nel futuro, altrettanto ingiustificabili contenziosi.
Altrettanto paradossalmente, in sede di verifica, l’incomprensibile presa di posizione potrebbe, peraltro, trovare estensione ad altre fattispecie nelle quali il contribuente, per ragioni di economicità, rinuncia alla potenziale possibilità di recuperare l’Iva (si pensi, a titolo esemplificativo: all'Iva estera legata al sostenimento di spese sostenute per fiere all’estero, che non sempre viene chiesta a rimborso; ai pedaggi autostradali non documentati tramite telepass; al noleggio di auto effettuata direttamente dal dipendente in occasione di una trasferta specifica; ecc).

CONCLUSIONI
Ci si augura che l'Agenzia delle Entrate, sopratutto al fine di evitare inutili complicazioni alle imprese, voglia trovare l'occasione per rivedere la propria posizione riconoscendo la deducibilità dell'Iva implicitamente compresa nel corrispettivo documentato da scontrino o ricevuta fiscale.

Maggio 2009
Ufficio fiscale Apindustria Vicenza


LA SOLUZIONE DEL CASO *** 19/5/2010 ***

Con la Circolare n. 25/E del 19/05/2010 l'Agenzia delle Entrate ritorna opportunamente sui propri passi con riguardo ad alcune non condivisibili posizioni espresse nella Circolare n. 6/E del 3/3/2009 e nella R.M. n. 84/E del 31/03/2009. Con tali declaratorie il Fisco negava la deducibilità ai fini IRPEF/IRES ed IRAP dell'Iva non detratta sulle spese per prestazioni albeghiere e somministrazioni di alimenti e bevande per spese documentate con ricevuta fiscale o scontrino parlante. Con la nuova circolare viene, invece, riconosciuto che la scelta del contribuente di ricorrere alla documentazione tramite scontrino o ricevuta fiscale (documento che non consente la detrazione ai fini Iva) può essere legato a valutazioni di convenienza economico-gestionale. Viene altresì riconosciuto (e come non si poteva fare diversamente) che l'art. 22, co.3, del DPR n. 633/723 non obbliga l'imprenditore a richiedere la fattura per l'acquisto di prestazioni alberghiere e di ristorazione(tale obbligo sussiste, infatti, solo per gli acquisti di beni oggetto dell'attività propria). In conclusione, l'Iva non detratta ed implicitamente compresa nel corrispettivo documentato da RF o scontrino rimane deducibile (in aggiunta al costo) tanto ai fini IRES/IRPEF che IRAP sempreché sia riferita a costi inerenti e nel limite del 75% previsto dall'art. 109, co.5, del TUIR (si ricorda che tale limite non opera per le trasferte fuori territorio comunale di dipendenti e collaboratori).
Infine, l'Agenzia precisa che non può, invece, costituire costo inerente all'attività esercitata e, conseguentemente, non è deducibile dal reddito l'Iva documentata mediante fattura e rimasta a carico del contribuente (impresa o professionista) a causa del mancato esercizio del diritto alla detrazione.

19/05/2010
Ufficio fiscale Apindustria Vicenza